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Rassegna stampa

Grigny, “Le Nouveau Schio”

Da “Il Giornale di Vicenza” – Venerdì 20 giugno 2008
di Paolo Meneghini

COM’È CAMBIATO AGLI INIZI DEL 1900 UN TRANQUILLO VILLAGGIO AGRICOLO SULLE SPONDE DELLA SENNA

Fino alla fine del 1800 Grigny era un tranquillo villaggio agricolo sulle sponde della Senna; paradossalmente isolato, seppure distante da Parigi solo 25 chilometri. La vita scorreva tranquilla per i nemmeno 600 “grignards” dediti alla raccolta di cereali, patate e fagioli. C’era anche qualche allevamento di suini.

Ma il grande sviluppo urbanistico della capitale francese, iniziato nei primi anni del ‘900, trasformò in pochi anni quel piccolo villaggio.

Tutto ebbe inizio quando si scoprì che nel sottosuolo di Grigny c’era una grande quantità di sabbia e subito sotto una roccia sedimentaria, leggera, ma solida e inalterabile, ideale per la costruzione degli edifici: la “pierre meulière”. La vicinanza con Parigi e la facilità di poter trasportare il prezioso materiale, lungo la Senna, nel cuore della città, fecero sì che l’industria estrattiva divenisse la principale risorsa di Grigny.

La vita ed il paesaggio di Grigny non furono più gli stessi, se solo si considera che la popolazione raddoppiò nel giro di pochi anni e che alcune cave si riempirono d’acqua, trasformandosi in piccoli laghi.

Colui che per primo intuì l’enorme ricchezza che era lì, a pochi metri di profondità, fu l’ingegnere Charles Piketty, che divenne l’artefice principale dell’industria estrattiva di Grigny dapprima artigianalmente, con il socio Bouton; più tardi, a livello industriale, in società con i figli.

Figura controversa, Piketty era in realtà un italiano del Nord il cui vero nome, Carlo Picchetto, era stato francesizzato. Quando l’imprenditore decise di sfruttare su larga scala il sottosuolo di Grigny, si trovò a dover fare i conti con una grave carenza di manodopera. La Grande Guerra e la terribile “spagnola” avevano infatti falcidiato in pochi anni il 27% della forza lavoro maschile francese dai 18 ai 27 anni. Era pertanto necessario trovare braccia altrove e Piketty, che evidentemente conosceva i veneti per essere lavoratori resistenti alla fatica e per nulla esigenti, iniziò a reclutare uomini proprio nell’Alto Vicentino. Decine, centinaia furono gli uomini di Tretto, Schio, Arsiero, Posina, Valli del Pasubio, Torrebelvicino, San Vito di Leguzzano… che varcarono le Alpi sapendo che di là non avrebbero trovato la fortuna, ma solo un lavoro onesto col quale campare. Il fenomeno fu così vasto che alla fine degli anni ’20 la metà de gli abitanti di Grigny e i tre quarti degli alunni delle scuole primarie erano di origine vicentina. Questo valse alla cittadina francese l’appellativo di “petite Italie” o ancora “le noveau Schio”.

Baggio, Bortoli, Brunello, Cervo, Comparin, Conforto, Cornolò, Costa, Dal Molin, Dal Prà, Fabrello, Filippi, Lissa, Lorenzato, Marsilio, Mogentale, Zolin, Zordan… sono solo alcuni dei cognomi vicentini trapiantati a Grigny.

Inizialmente partirono solo uomini. Chi era sposato lasciava a casa la famiglia, che l’avrebbe magari raggiunto qualche tempo dopo. Se una cosa aveva di positivo, quest’emigrazione verso la Francia, era che i nostri non avrebbero trovato nessuna brutta sorpresa all’arrivo, evento affatto raro per coloro che negli anni precedenti si erano fidati delle promesse di spregiudicati mediatori di manodopera. A Grigny andavano con un contratto di lavoro in mano e la paga a cottimo – unilateralmente stabilita – era di franchi 11,50 per vagone di pietra, franchi 6 per uno di sabbia. Per campare si doveva lavorare mediamente per 10 ore al giorno, spesso anche la domenica. I cavapietre vivevano in baracche di legno (“barraquements”), mentre i pasti erano assicurati dalle “Cantines”, ossia delle pensioni a conduzione familiare che erano anche il punto di ritrovo dei lavoratori nelle poche ore di svago. Le “Cantines” erano gestite generalmente dalla “bacàna”, autoritaria e leggendaria figura femminile che si prendeva cura di quei robusti lavoratori.

Certo una cava a cielo aperto non è la stessa cosa di una miniera, ma la fatica era la stessa, se non maggiore, ed i pericoli all’ordine del giorno. La pietra tagliente spaccava le mani ai quei poveri cavatori i quali, nel tentativo di cauterizzare le piaghe, arrivavano persino a fondervi sopra del caucciù. Gli incidenti, anche mortali, non erano affatto rari. Il quotidiano “Abeille d’Etampes et de Cobreil”, ad esempio, riporta sotto il titolo “Morte accidentale”: “I cavapietre Dalla Carmina, Lorenzato e Menara stavano caricando dei vagoni a 3 metri di profondità quando, tutto ad un tratto, il terreno è franato. Mentre Lorenzato e Menara sono riusciti ad evitarla, Dalla Carmina è stato travolto sotto due metri cubi di terriccio. Nonostante il pronto intervento dei compagni di lavoro, per Dalla Carmina la morte è sopraggiunta istantanea per rottura della colonna vertebrale e lo schiacciamento della testa”.

Le cave furono progressivamente abbandonate dopo il secondo conflitto mondiale. L’utilizzo del cemento armato nell’edilizia, gli alti costi estrattivi e l’esaurimento delle cave di Grigny posero fine all’avventura di monsieur Piketty e dei suoi figli.

Tuttavia la gran parte dei nostri cavatori rimase in territorio francese. Le mogli aveva no da tempo raggiunto i mariti, i figli avevano iniziato a frequentare le scuole francesi e molti erano stati naturalizzati. E poi era rimasto, nei confronti dell’Italia, un forte astio. La Madrepatria non era vista con gli occhi malinconici della nostalgia; era considerata, piuttosto, una terra ostile ed ingrata che li aveva costretti ad emigrare in un altro Paese. Spesso anche i familiari rimasti nel vicentino non si rendevano conto dei sacrifici e delle difficoltà incontrate da fratelli e cugini al di là delle Alpi. E allora, se una lingua si doveva adottare per il futuro, meglio scegliere quella francese, che almeno avrebbe assicurato loro la pagnotta.

La storia della “noveau Schio” avrebbe corso il rischio di essere seppellita dal tempo, se negli ultimi anni alcuni figli di quell’emigrazione – ed in particolare Annalisa Marsilio – non si fossero dati da fare per cercare di dare un senso al sacrificio di tanta gente, gettando un ponte fra l’Alto Vicentino e Grigny.

“La storia di Grigny – racconta la signora Marsilio, che oggi vive a Schio – ha segnato la mia vita, nel bene e nel male. Nei primi anni ’60 i miei tornarono in Italia perché papà era malato e per me, che avevo sedici anni, è stato uno strappo molto sofferto. Avevo frequentato con profitto le scuole francesi, ero affascinata dalla cultura d’oltralpe, avevo tutti gli amici là e d ‘un tratto, io che capivo solo il francese, mi trovai catapultata in una realtà completamente diversa. La Schio di quei primi anni Sessanta era lontana anni luce dall’Avenue des Champs-Élysées che potevo raggiungere in pochi minuti di treno. Purtroppo, però, mi trovavo in quell’età nella quale sei troppo giovane per prendere delle decisioni autonome e poi ero una ragazza, la mentalità di quegli anni… Se fossi stata un maschio, sarebbe stato tutto diverso. Ancora oggi, ogni tanto, mi chiedo come sarebbe andata la mia vita se fossi rimasta in Francia”.

Sono parole che riassumono il disagio di tutti coloro che decisero di rientrare a “casa” dopo una lunga esperienza migratoria: all’estero erano considerati (e trattati) come stranieri, ma forestieri continuavano ad essere anche una volta tornati in Patria.

Annalisa Marsilio, nonostante tutte le difficoltà, è riuscita a superare con gli anni questa profonda crisi d’identità. Lo ha fatto mantenendo un canale sempre aperto con la sua amata Francia (specialmente dopo l’avvento della televisione satellitare e di Internet) fino a quando, recentemente, questa “italiana che parla francese” ha fondato assieme ad alcuni amici scledensi l’Associazione “Amici di Schio-Grigny”. In Francia hanno fatto lo stesso, con l'”Association Amitié Grigny-Schio”. I due sodalizi hanno già organizzato numerosi momenti di incontro affiliando, mese dopo mese, nuovi simpatizzanti. E così l’epopea di quei cavapietre italiani è stata salvata dall’oblìo e molte famiglie, al di qua e al di là delle Alpi, hanno iniziato a recuperare una parte importante della loro storia, che ora è nelle mani delle nuove generazioni.

Il Comune di Grigny, che oggi ha più di 25 mila abitanti, ha voluto intitolare due vie al lavoro di quegli onesti emigrati: la “Rue de Schio”e la “Rue des Carriers Italiens”.

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